Spesso si afferma che Homo sapiens sia la specie superiore, quella più intelligente. Ma è davvero così?
Che cosa distingue la nostra mente da quella di un animale? Si potrebbe pensare alla capacità di progettare utensili o alla comprensione del passato, che ci inducono a considerare noi stessi come la specie più eminente del pianeta. In anni recenti, però, queste affermazioni sono state confutate da una rivoluzione nello studio della cognizione animale.
Se consideriamo il modo in cui i polpi usano le noci di cocco per mimetizzarsi o la prodigiosa memoria di cui dà prova un giovane scimpanzé oggetto di studio all’Università di Kyoto, dobbiamo concludere che la capacità di ideare strumenti o di ricordare il passato non sono caratteristiche esclusivamente umane.
Frans de Waal, che in questo ambito di studi non ha rivali al mondo, riporta nel suo libro “Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali” ricerche condotte sulle più varie specie, dai delfini alle pecore, dalle vespe ai pipistrelli, per mostrare quanto sia vasta l’intelligenza degli animali e quanto noi siamo stati sciocchi a sottovalutarne le capacità così a lungo.
Chi è più intelligente all’interno della stessa specie
Robert P. Erickson, del dipartimento di Neurobiologia, Fisiologia e Neuroscienze alla Duke University di Durham, in uno studio del 2014, ci dimostra perché Homo sapiens non è la specie più intelligente.
«Il pensiero dell’essere umano è: “Nessun’altra specie può fare meglio di un umano ciò che fa un essere umano, quindi gli umani sono i più intelligenti”. Le anatre non sanno scrivere poesie. Ma messa nel suo formato ordinato, la logica umana è: “Se nessun’altra specie può fare meglio della specie A cosa fa la specie A, allora la specie A è la più intelligente”. Tornando alle anatre, quindi, “Nessun’altra specie può fare meglio di un’anatra cosa fa un’anatra, quindi le anatre sono le più intelligenti”.
Se degli alieni imparziali venissero a determinare quale specie è la più intelligente, scoprirebbero che nessun’altra specie potrebbe fare quello che fanno le anatre come lo fanno le anatre. Gli esseri umani fallirebbero come anatre; non possono nuotare sott’acqua per prendere il cibo nel becco, né possono volare… Gli esseri umani possono costruire aeroplani, ma loro stessi non possono volare.
E nel sottolineare che rispetto ad altre specie abbiamo cervelli più grandi o più sviluppati, o di maggiore massa cerebrale rispetto alla nostra massa corporea, perdiamo di vista il fatto che anatomia e intelligenza non sono correlate. La biologia del cervello non è l’intelligenza.
Dovremmo non trascurare il fatto che focene, balene blu ed elefanti hanno cervelli più grandi di noi, la nostra avanzata evoluzione prefrontale non esclude la possibile maggiore evoluzione di altre parti di altre specie. Sarebbe più saggio, quindi, utilizzare il termine “intelligenza” per le differenze all’interno della stessa specie, confrontando anatre con altre anatre e singoli esseri umani con altri Homo sapiens, anziché per differenze interspecifiche, confrontando le anatre con gli esseri umani.
Questi sono argomenti diversi e dovrebbero esser usati termini diversi.
In questa prospettiva, l’“intelligenza” dovrebbe essere utilizzata al meglio solo per i confronti all’interno di una stessa specie. Quindi, gli individui all’interno di una specie possono essere valutati in base a quanto bene svolgono il “lavoro” di essere un membro di successo di quella specie e il termine “intelligenza” è ben utilizzato per questa valutazione. Varie specie potrebbero essere confrontate in base a quanto bene stanno svolgendo il compito di sopravvivenza ed evoluzione. Ma questi non sono gli stessi argomenti e non dovrebbero essere inclusi nella stessa categoria “intelligenza”».
Non siamo i soli a parlare
E non solo non siamo la specie più intelligente, ma non siamo nemmeno l’unica a saper “parlare”, facoltà di cui andiamo tanto fieri. Se prendiamo d’esempio la nostra capacità di produrre suoni/parole, lo sanno fare anche i pappagalli e quindi la nostra capacità non è esclusiva. Se prendiamo la capacità di comunicare in modo efficace dei pensieri o delle azioni, ahimè non ci appartiene nemmeno questo primato.
La comunicazione verbale, o il riconoscimento di parole e frasi, non è infatti, unica per gli esseri umani. Molti animali hanno mostrato una capacità impressionante nell’apprendimento di queste abilità. Oltre a imparare le parole umane, gli animali hanno anche il proprio insieme di parole che usano per parlare tra loro.
Steven H. Ackers, e C.N. Slobodchikoff, nel 1999 hanno pubblicato un interessante studio sui cani della prateria. Questi roditori diffusi nelle praterie americane sembrano avere uno dei vocabolari più estesi nel mondo animale. Non solo hanno una “parola” diversa per ogni tipo di predatore, così come i cercopiteci verdi, ma possono aggiungere un linguaggio descrittivo per comunicare il tipo di minaccia, comprese le dimensioni, la forma e persino la velocità di avanzamento. Con una tale varietà di chiamate e potenziali significati, sorge la domanda: quanta cognizione va in queste comunicazioni? I cani della prateria sanno anche cosa stanno dicendo?
Poiché non possiamo chiederelo ai cani della prateria, è difficile rispondere a questa domanda. Ci sono prove che le chiamate dei cani della prateria non sono basate interamente sull’istinto e possono coinvolgere un certo livello di cognizione. Gli stridii dei cani della prateria in cattività ripetono lo stesso semplice schema indipendentemente dagli stimoli presentati; essenzialmente stanno solo urlando.
Ciò suggerisce che i cani della prateria imparano le basi della comunicazione descrittiva dai loro genitori in Natura, un’esperienza che manca agli animali in cattività.
Articolo pubblicato su LaRivistaDellaNatura